Peter Norman lo sprinter bianco che sfidò l’Apartheid – Il Messaggero

Troppo tardi l’Australia si ricorda di Peter Norman lo sprinter bianco che sfidò l’Apartheid

Ne parla il Messaggero di oggi…

 

 

Australia, riabilitato Peter Norman Nel ’68 lo sprinter bianco sfidò l’Apartheid – Il Messaggero.

di Piero Mei

 

ROMA – Eroismo e umiltà: sono le due doti riconosciutegli 44 anni e 10 Olimpiadi dopo l’accaduto, sei anni dopo la sua morte. Peter Norman, “the white guy”, il ragazzo bianco, adesso è Qualcuno anche per il suo Paese, l’Australia. Il Parlamento di Canberra lo ha proclamato tale davanti a Thelma, signora ormai 91enne, la madre dell’eroe in questione.

Un eroe sportivo, ma non solo: perché Peter Norman è colui che arrivò secondo nella corsa dei 200 metri alle Olimpiadi di Messico ’68, tra il vincitore Tommie Jet Smith ed il terzo arrivato, John Carlos, statunitensi entrambi, entrambi neri. «Quando andiamo in guerra o vinciamo medaglie siamo americani, sennò siamo negri» disse Tommie Jet. “Negri”, in quel Sessantotto che ribolliva, era peggio di “neri” oggi. Tommie Jet fece il record del mondo, Peter Norman fece 20:06.

Fecero di più: perché i due americani appartenevano all’Olympic Project for Human Rights. E, non avendo avuto la forza di boicottare i Giochi come suggerivano loro le Black Panthers (ma chi l’avrebbe avuta? ti alleni una vita per le Olimpiadi, e nessuno si allena per arrivare secondo), decisero di utilizzare il podio olimpico come palcoscenico mondiale, televisto ovunque.

Peter li vide arrivare senza scarpe, con semplici calze nere simbolo della povertà, e John Carlos aveva una collanina al collo con tante pietre nere, ciascuna simbolo di un compagno linciato dagli yankees. I due ragazzi avevano stabilito che avrebbero alzato le braccia tese e i due pugni guantati di nero contro il cielo leggero dell’altura messicana: avrebbero preso a pugni i razzisti di tutto il mondo.

Ma, andando verso il podio, Tommie Jet si accorse di aver dimenticato i guanti che gli aveva comprato Denise, sua moglie. «Non c’è problema, mettètene uno per uno di quelli di John» suggerì Norman, che si fece anche dare un distintivo dell’Olympic Project e se l’appuntò sul petto. Sul podio suonava l’inno americano, Tommie e John avevano la testa bassa e il pugno alto, Smith il destro, Carlos il sinistro.Peter aveva dichiarato la sua solidarietà, l’aveva manifestata al mondo, e stava lì con le braccia lungo il corpo, molto imbarazzato.

Da quel giorno Norman divenne inesistente per l’atletica australiana: lo boicottarono in tutti i modi. Fece i tempi di qualificazione per le successive Olimpiadi di Monaco ’72 ma non venne convocato: i dirigenti australiani preferirono non avere in pista neppure uno sprinter, cosa mai accaduta nella storia olimpica, piuttosto che portare Peter. E si ricordarono di lui, non ricordandosene, anche trent’anni dopo alle Olimpiadi di Sydney: non fu coinvolto in nessun modo né invitato a nessuna cerimonia, neppure come spettatore.

E quando morì al suo funerale, il 9 novembre 2006, quelli che portarono a spalla la bara non furono uomini dell’atletica australiana, ma Tommie e John, che pure non l’avevano più incontrato, «ma per me Peter era come un fratello», disse Smith. E Carlos oggi ricorda che quell’esclusione da Monaco ’72 «deve averlo ferito e non penso si sia più ripreso».

Escluso, per sempre: perfino nel monumento che ricorda quel magnifico gesto, all’Università di San Josè, in California, dove hanno scolpito un podio di marmo, Smith e Carlos prendono ancora a pugni il cielo, ma il posto dell’argento è vuoto di statue, come se Peter Norman fosse semplicemente il campione invisibile. Per fortuna che suo nipote Matt ha voluto raccontarne la storia nel film australiano “Salute the Movie” nel 2009: non ebbe finanziamenti pubblici. Il tempo di 20:06 di Peter Norman nel 1968 è ancora record australiano.

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